Dal campo alla stalla

Per fare il latte... ci vuole il fieno

Il Parmigiano Reggiano è fatto solo con latte, caglio e sale, eppure ogni formaggio è diverso. 
Come è possibile? Semplice: perché c’è latte e latte! 
Si dice: “È facile come bere un bicchiere di latte”. Berlo sì è semplice, ma produrlo è tutta un’altra faccenda. 
Prima ancora che entri in campo l’abilità dei casari, infatti, la qualità del formaggio dipende da cosa avviene prima della lavorazione in caseificio: da che vacche proviene il latte e come queste sono nutrite, allevate e… coccolate.

Allevatori e agricoltori per passione e per necessità


Allevatori e agricoltori per passione e per necessità

In montagna, l’allevatore di bovine è spesso anche agricoltore.
 I soci del Caseificio Il Battistero sono agricoltori per passione e… per necessità.
Per passione, perché sono legati alla terra che ha dato pane ai loro bisnonni, nonni e genitori, e, per questo, è molto probabile che anche i loro figli resteranno legati ai loro campi, ai loro boschi, alle loro valli.
Per necessità, perché in montagna è sempre stato più difficile e dispendioso muoversi e trasportare merci su strade impervie e, soprattutto d’inverno, spesso impraticabili.
Perciò gli allevatori hanno dovuto sempre saper contare il più possibile su loro stessi. Nonostante il progresso dei mezzi e delle tecnologie, in montagna ancora oggi in parte è così ed è impensabile fare quadrare il bilancio di un allevamento se si acquistano altrove tutto il fieno e la paglia che occorrono per mandare avanti una stalla.

Quattro stagioni sul campo

Il buon fieno si fa… col buonsenso!

È inutile lamentarsi che fa troppo caldo o troppo freddo, troppo secco o troppo umido: l’agricoltore deve saper trarre il meglio da ogni stagione.
L’inverno si dice che sia il periodo di riposo per gli agricoltori, in realtà è il momento in cui ci si prende cura dei terreni. Si tolgono le piante infestanti, si scavano i solchi per evitare i ristagni d’acqua; si puliscono i corsi d’acqua per evitare che straripino in caso di piena: questo è un lavoro importantissimo per mantenere le nostre montagne ed evitare le frane.
La primavera è la stagione del risveglio. In poche settimane la forza accumulata dalla terra durante l’inverno fa crescere erba e piante. Ad aprile comincia la fienagione e si raccoglie il fieno di “primo taglio”. Ma non basta tagliarlo: il fieno va lasciato sul campo poi, il giorno dopo, va girato e, il giorno successivo, “ranghinato”, ovvero raccolto in righe per essere imballato. Ogni rotoballa, o “ballone” pesa 3-4 quintali e deve rimanere a riposare per qualche tempo sul campo per “raffreddarsi” prima di poter, finalmente, essere portato nel fienile.
L’estate è il tempo delle trebbiatrici: avrete sicuramente visto quei “bestioni” che servono per separare i chicchi di orzo o di frumento dalla paglia, che viene poi usata come letto nei ricoveri degli animali. Ed è anche il tempo della seconda fienagione e, a volte, della terza, se il tempo è favorevole.
L’autunno è il periodo più impegnativo, perché è quello della semina; ma prima i terreni necessitano di essere concimati. Per noi allevatori il concime più naturale è costituito dal liquame e dal letame delle nostre vacche: lo scarto del fieno che hanno mangiato. Così ridiamo alla terra quello che ci ha dato: niente si perde, tutto nutre, naturalmente! 
I campi poi vengono arati: i vomeri vanno in profondità e aprono la terra sollevando le zolle, che sono poi sminuzzate per accogliere il seme; poi si ripiana con il rullo.
Tra semine e sfalci, si passa circa 10 volte all’anno sullo stesso metro quadro di campo!

Il fieno dà sapore al latte

Tutto questo lavoro serve a preparare il “menu” giornaliero per le vacche; esse, infatti, mangiano esclusivamente fieno della Val Ceno e della Val Pessola, raccolto più a valle, vicino al fiume, o più a monte, a seconda della stagione.

Il fieno proviene dai cosiddetti prati stabili, ovvero non coltivati, tipici dei terreni montani, difficili da arare e seminare, ma formatisi nel tempo. Più il prato è vecchio, più sviluppa una vegetazione spontanea di graminacee e fiori estremamente varia: buona per gli animali e buona per l’ambiente, perché garantisce la biodiversità e migliora la qualità e la stabilità del suolo.

Tra le erbe spontanee presenti nel fieno ci sono fragoline di bosco, menta, timo, maggiorana, aglio e orchidee selvatiche, salvia e ranuncolo: tutti profumi e sapori che si ritrovano poi nei formaggi, sia in quelli freschi sia nel Parmigiano Reggiano.

Erba medica, cereali, legumi


Le vacche mangiano anche erba medica, una leguminosa coltivata che, raccolta quando è ancora in fiore, apporta proteine e vitamine in quantità e arricchisce il suolo di azoto; e mangiano una miscela di cereali e legumi: mais, frumento, crusca, orzo, sorgo, pisello.

Anche le bovine fanno la “dieta”

Le razioni giornaliere di cibo, infatti, sono calcolate in base alle esigenze di ognuna: se è giovane o più anziana, se è gravida o ha appena avuto un vitellino ecc. Alcuni soci si regolano in base all’esperienza, altri si fanno aiutare dalle moderne tecnologie: da un programma apposito del computer che, grazie a un microchip, riconosce e controlla quanto mangia ogni vacca e fornisce la giusta quantità di cibo che costituisce la sua razione quotidiana.

Dalla stalla alla mungitura

Per fare il latte… ci vogliono le vacche

Ci sono bambini che abitano in città convinti che il latte nasca direttamente nelle bottiglie. Invece, pensate un po’, ci vogliono le vacche. 
E non basta dare loro buon fieno e mungerle per avere un latte – e quindi formaggi – di qualità, ma occorrono cure costanti e impegnative.

L’intensa giornata dell’allevatore


La giornata dell’allevatore comincia presto: alle 4.30 del mattino è già ora di andare in stalla per la prima mungitura. A volte anche le vacche hanno ancora un po’ sonno, e bisogna convincerle con le buone ad alzarsi, perché il raccoglitore non aspetta: deve portare il latte in caseificio entro due ore dalla mungitura: non c’è spazio per l’improvvisazione, non c’è tempo di dire “lo farò dopo!”. 
Sul latte appena munto vengono subito eseguite alcune analisi per vedere se rispetta i parametri di qualità previsti dal Consorzio. La seconda mungitura si fa alla sera, alle 16.30. Anche questo latte viene portato al caseificio nei tempi stabiliti (accuratamente segnati su un registro). Qui riposa tutta la notte in attesa di essere mescolato con il latte del mattino successivo per fare il Parmigiano.




Oltre la mungitura

Dopo ogni mungitura, però, il lavoro non è finito, anzi: bisogna pulire la stalla, i locali e gli strumenti e dare da mangiare agli animali. L’allevatore conosce una per una le sue bestie e capisce subito se qualcosa non va: a volte basta osservare come si muove e come tiene la testa, per capire il suo umore e la sua salute. Se una vacca non sta bene, infatti, la qualità del latte ne risente: meglio stanno gli animali, dunque, più buono sarà il formaggio. 
Come il maniscalco è di casa per tagliare le unghie delle zampe, così anche il veterinario per i controlli ordinari e per gli interventi straordinari. Occorre gestire le vacche incinte, dalla fecondazione alle varie fasi della gravidanza, anche perché per cominciare a dare il latte, ogni vacca deve prima fare un vitellino; e poi occorre curare i nuovi nati e affrontare ogni sorta di imprevisti, in questo modo la giornata lavorativa si allunga dalle 12 alle 15 ore!

Ogni vacca ha un nome e… un carattere! 


Per fare il Parmigiano Reggiano si possono usare diverse razze di vacche. Un tempo nelle nostre valli era diffuso un tipo di bruna, che, curiosamente, era chiamata “bianca”, e che ora è stata sostituita dalla bruna italiana; poi hanno preso piede le frisone, perché erano un po’ più facili da allevare e rendevano di più; ma anche altre razze danno buon latte, con caratteristiche leggermente diverse: alcune più grasso, altre più ricco di caseina o di altre sostanze, la cui unione garantisce al formaggio una gamma di sapori più vari e completi. 
Non esistono solo razze con caratteristiche diverse; ma ogni vacca all’interno di un allevamento è diversa: ci sono quelle più pigre e quelle più timide, quelle più ombrose e quelle più amichevoli; ognuna ha un nome e un carattere, che l’allevatore deve conoscere e rispettare se vuole ottenere il meglio da lei.

Dalla mungitura al caseificio

Per fare il formaggio... ci vuole il latte

Dopo aver curato i campi, curato le bovine e munto il loro latte, comincia l’ultima parte del viaggio verso il formaggio. E comincia a bordo di un camion, prima dell’alba…

Tre comuni, due valli e un solo formaggio

Alle 5 del mattino, quando la maggior parte dei comodi cittadini ancora dormono, nelle stalle dei soci della cooperativa il latte è già munto. Il camion comincia il suo viaggio attraverso tre comuni e due vallate (la Val Ceno e la Val Pessola), per raccogliere i bidoni pieni.
Il viaggio si conclude in caseificio, dove i casari mescolano il latte appena raccolto con quello della sera prima, già preparato nelle grandi caldaie in rame, come vuole la tradizione.

Dal fondo delle caldaie in rame riemerge la bontà

Al latte si aggiungono soltanto il siero liquido, naturalmente ricco di fermenti che stimolano la coagulazione, e il caglio ricavato dallo stomaco dei vitelli da latte.
Appena il latte coagula ecco che entra in gioco tutta l’abilità dei casari, che sminuzzano la cagliata in piccoli granelli con lo spino. I granuli vengono poi cotti e lasciati riposare per un’ora.
Durante l’attesa avviene la magia: la cagliata si deposita sul fondo e da lì i casari la radunano e la fanno riemergere con abili gesti, poi viene divisa in due parti e, avvolta in fasce di tela, è pronta a diventare due forme di Parmigiano Reggiano di Montagna.

Prima la culla, poi il bagnetto

I formaggi appena nati vengono dapprima messi in una “culla” un po’ scomoda, ovvero stretti in una fascera, che darà loro la tipica forma del Parmigiano Reggiano. A ognuno viene applicata una placca di caseina (sostanza naturale derivata dal latte), che è come il braccialettino che si mette ai neonati: sopra ci sono tutti i dati lo rendono identificabile e permettono di seguirne le vicissitudini fino alla tavola: da dove viene, quando è stato fatto, da chi ecc.
Poi alle forme viene fatto il “bagnetto”, cioè vengono immerse in una soluzione di acqua e sale. Grazie a questo trattamento, che dura diversi giorni, il sale penetra lentamente e uniformemente all’interno del formaggio, dandogli sapore e rendendolo pronto alla stagionatura. Il sale, infatti, come noto, è uno dei più antichi conservanti naturali conosciuti e usati dall’uomo.
Tutta questa fase preparatoria dura 27 giorni.
Dopo il bagno in salamoia, le forme restano a sgocciolare per un giorno intero, prima di essere avviate alla stagionatura, perché devono arrivare asciutte sulle assi di legno, dove resteranno fino alla vendita.

Dalla caseificio alla tavola

Per fare il Parmigiano Reggiano Dop… ci vuole tempo

Ora che il “viaggio del latte” è finito, per le future forme di Parmigiano Reggiano, ancora bianche, dolci e tenere, avvolte in fasce di tela quasi come neonati, ne inizia subito un altro, non meno importante, non più nello spazio, di valle in valle – perché ormai ci si muove di pochi metri, all’interno del caseificio e dell’attiguo magazzino – ma… nel tempo!
Comincia, infatti, la stagionatura.

Del formaggio non si butta via (quasi) niente

Una volta che le forme di Parmigiano Reggiano sono arrivate in magazzino, non basta aspettare e… sperare. Il formaggio va curato e seguito attentamente: ogni settimana le forme devono essere girate una a una. A sei mesi avviene la prima selezione: si osserva come sta crescendo il “bambino” e si cerca di capire, con l’esperienza acquisita in anni di lavoro, cosa potrà diventare da grande.
Proprio come i figli, infatti, non tutti riescono uguali, alcuni hanno dei difetti, ma per tutti o quasi c’è una possibilità.
I difetti sono inevitabili, perché si tratta di una produzione artigianale e di un prodotto naturale e vivo, che cambia nel tempo e risente di ogni minima variazione del latte, del clima ecc. La bravura dei casari sta nel limitarli il più possibile e individuarli il prima possibile.
La maggior parte dei difetti, però, sono imperfezioni che non pregiudicano il sapore del prodotto. Semplicemente, queste forme non diventeranno Dop e non verranno avviate alle lunghe stagionature, che sono il vanto del Parmigiano Reggiano; ma se consumate a breve e media stagionatura, non hanno nulla o quasi da invidiare alle loro sorelle meglio riuscite.

Aria e umidità: il formaggio si veste e si spoglia

Sebbene oggi la climatizzazione dia una mano a chi si occupa di stagionatura, per non essere in totale balia del clima; saper sfruttare con intelligenza l’aria esterna per regolare il calore e l’umidità è ancora importantissimo per fare un buon formaggio.
Che sia d’estate o d’inverno, si aspettano giornate limpide e asciutte (piuttosto rare in pianura padana, ma più frequenti in montagna) per aprire le finestre e abbassare il grado d’umidità all’interno del magazzino. Così facendo il Parmigiano Reggiano “suda”, ovvero, butta fuori acqua e si “sveste”, cioè si spoglia di quella patina di muffe (chiamata “investitura”) che si forma naturalmente sulla crosta e che si stacca da sé al variare dell’umidità.

“Toc, toc… dica 33”: gli espertizzatori al lavoro

Dopo la prima selezione, fatta dai casari stessi, al tredicesimo mese arrivano gli espertizzatori: coloro che decidono se una forma potrà fregiarsi o no del marchio del Consorzio e guadagnare l’ambito diploma di Parmigiano Reggiano.
L’esame viene svolto con un martelletto come quello che il dottore usa per testare i riflessi: funziona come un sonar che scandaglia la forma e, a seconda del suono, svela a orecchie esperte pregi e mancanze.
Gli esperti usano tra loro un curioso linguaggio per descrivere le caratteristiche di ogni forma. Ascoltandoli, potreste sentirli dire che è gonfia, sgonfia, lenta, che ha gli occhi o che è… immagonata (cioè più umida del dovuto al suo interno).
A volte fanno dei “carotaggi” con un ago d’acciaio al centro, per capire se la stagionatura procede in modo uniforme. Poi, scelgono una forma “tipo” tra quelle esaminate, la aprono sul ceppo di legno e la osservano con attenzione per giudicarne non solo a orecchio, ma anche a naso, a occhio e a gusto l’effettiva qualità.
Tra le forme marchiate con il sigillo del Consorzio, e che dunque sono diventate a tutti gli effetti Parmigiano Reggiano Dop, ancora una volta tocca all’esperienza degli stagionatori scegliere quelle che hanno le caratteristiche giuste per azzardare lunghe stagionature, che le faranno diventare nonne e bisnonne. È una scelta delicata e, come ogni scelta, comporta dei rischi.

Il Parmigiano “highlander”: può resistere fino a sette anni

Per il formaggio, un po’ come per i vini esistono “annate” migliori con le quali si possono fare meraviglie. Ad esempio si può tentare di fare un Parmigiano Reggiano Dop di ottantaquattro mesi, ovvero sette anni: una sorta di highlander dei formaggi, una rarità che riesce soltanto se la base da cui si parte è di altissima qualità.
Del resto, il Parmigiano Reggiano è stato fatto apposta per durare il più a lungo possibile.
È nato, infatti, dall’estro e dalla pazienza dei monaci benedettini medievali, che seppero trasformare con un semplice miracolo l’alimento più puro ma più delicato e facilmente deperibile, ovvero il latte, in un cibo di sussistenza in grado di conservarsi e offrire nutrimento e sostegno nei lunghi inverni senza frigorifero, luce, riscaldamento, né tantomeno supermercati.

Formaggi invecchiati per palati stagionati

Come i vini (e le persone?) migliori, anche il Parmigiano Reggiano Dop migliora invecchiando.
Col tempo le sue caratteristiche biochimiche cambiano. Dal diciottesimo mese in poi, ad esempio, il lattosio è già stato “digerito” e scomposto in zuccheri semplici e il formaggio diviene adatto anche a chi è intollerante a questa sostanza.
La gamma di sapori si modifica e si fa più ampia e varia, la naturale sapidità si esalta, senza mai diventare forte o piccante, ma solo supersaporito.
È abbastanza normale che i bambini, i giovani e le persone meno abituate gustare il vero Parmigiano Reggiano apprezzino le stagionature più brevi, che hanno un gusto più dolce e una consistenza più pastosa; ma i palati fini, che sono cresciuti gustando buon formaggio, vanno matti per le stagionature più lunghe, ricche di sapori complessi da scoprire senza fretta a ogni morso.

Latte di montagna: una scelta di qualità. 


Se vuoi produrre latte in quantità… non puoi stare in montagna!

Fare il Parmigiano Reggiano qui è una sfida; così come la vita degli allevatori-agricoltori, che un tempo era normale, oggi è una scelta di qualità, che consente di seguire personalmente l’intera filiera produttiva dal campo al formaggio.
 

Dal filo d’erba al mercato: le nostre garanzie

Non sempre la stagionatura del Parmigiano Reggiano avviene nello stesso luogo in cui questo è prodotto: spesso c’è un grossista che lo acquista fresco dal caseificio e lo fa stagionare nei suoi magazzini prima di venderlo direttamente ai consumatori o ad altri negozianti al dettaglio.
 Anche una parte della produzione del Caseificio Il Battistero segue questa strada; ma avendo scelto di attuare la vendita diretta presso lo spaccio aziendale e nei mercati degli agricoltori, buona parte delle forme restano con noi fino al momento di arrivare in tavola.
Questa è, secondo noi, la migliore garanzia di qualità: perché le conosciamo una per una da prima che nascessero, quando erano ancora latte, anzi, quando erano ancora vacca da mungere e prato da dar da mangiare alle vacche.